L’allenatrice Alessandra Campedelli: “Dalle pallavoliste sorde alle nazionali femminili di Iran e Pakistan

Riuscire dove altre nemmeno osano: è questo uno degli obiettivi di Alessandra Campedelli, allenatrice della nazionale di pallavolo femminile sorde per cinque anni e commissario tecnico della nazionale femminile in Iran e Pakistan. Una sfida che ha richiesto coraggio, determinazione e una dose di rara sensibilità.

Si dice che lei sia una donna impavida. È così?

«Per niente. A 50 anni di paure ne ho molte. Però non ho paura di affrontare l’incertezza, di evolvermi, di fare scelte non comuni, di uscire dalla mia zona di comfort. Ho scelto di impegnarmi in contesti complicati, dove la cultura sportiva femminile è poco sviluppata e lo sport è spesso visto come un lusso, con l’intento di provare a cambiare le cose».

Cosa rappresenta per lei lo sport?

«Credo che lo sport non sia solo competizione, ma raffiguri uno strumento di riscatto personale e collettivo, oltre che un potente motore di trasformazione, capace di creare opportunità per chi vive in situazioni di svantaggio legate alla disabilità, al genere o a opinioni politiche e religiose minoritarie. Questo vale ancora di più per le donne, per le quali può costituire un’occasione per emanciparsi, mostrare il proprio valore e rompere l’isolamento sociale».

È riuscita ad attivare il cambiamento che sognava?

«Solo in parte. Oltre alle sfide tecniche ho dovuto affrontare forti barriere sociali e culturali. In Iran, abbiamo vinto molte medaglie, ma non ho avuto la libertà che speravo. Mi sono sentita frustrata e molto sola, senza potermi fidare di nessuno. Nel 2022 ho rifiutato il rinnovo del contratto a causa del sostegno della federazione al governo di Ebrahim Raisi, dopo le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente l’hijab. Un esempio: mi era stato promesso che avrei potuto non indossare il velo, ma sono stata obbligata a portarlo sempre».

Com’è stata l’esperienza in Pakistan?

«Nel gennaio 2023 sono partita per Islamabad. Al contrario delle atlete iraniane, che erano molto forti, le ragazze pachistane vengono avviate allo sport solo a 18 o 19 anni, il che rende difficile competere, sia fisicamente che mentalmente. Dopo sei mesi ho sospeso l’incarico, senza però abbandonare il progetto. Sto collaborando con l’associazione Empower Sports Academy per avvicinare le bambine più piccole alla pallavolo e formare insegnanti locali. Tornerò a Natale per continuare il lavoro e per girare alcuni frammenti di un docufilm, “Donne di Altri mondi” che uscirà in primavera e che racconterà proprio queste mie tre esperienze».

Quali sono state le difficoltà più grandi?

«Molto spesso mi sono sentita come un’analfabeta, priva delle chiavi per interpretare mondi molto lontani. Le competenze che pensavo di avere si sono rivelate insufficienti, e mi sono trovata a dover cercare nuove strategie per navigare tra culture tanto diverse dalle mie. Ha sperimentato anche un nuovo lessico…Con la nazionale delle atlete sorde ho imparato qualche parola nella lingua dei segni, ma poche ragazze conoscevano questo linguaggio. Tutte, però, sapevano leggere le labbra: è stata un’esperienza molto intima. In Iran e in Pakistan ho fatto del mio meglio per memorizzare semplici frasi in farsi e in urdu, come “mani sulla palla” o “palla alta”, per il resto ho usato l’inglese e qualche interprete»

Sembra complicato…

Sì, ma anche estremamente prezioso. Queste tre esperienze, in modo diverso, mi hanno insegnato a non lasciare spazio al vociare scomposto, a scegliere con cura le parole, a rispettare i silenzi. Il fatto di indossare la stessa divisa, poi, ha favorito un senso di sorellanza, rafforzando ulteriormente il legame tra di noi. Cosa la spinge verso progetti così complessi? Ho scelto con gioia di dedicarmi ai miei figli, Nicolò e Riccardo, nella prima parte della mia vita. Poi, quando hanno lasciato casa, ho capito che era il momento di rimettermi in gioco. Riconosco che sono stati i periodi più difficili a offrirmi l’impulso decisivo per accogliere nuove sfide. Può sembrare paradossale, ma è nella vulnerabilità che riscopro la mia forza interiore».