A un certo punto della vita i ruoli si invertono. Si diventa madri delle proprie mamme. Eppure non tutte sono a proprio agio nel curare chi ci ha dato la vita. Tra sensi di colpa e conflitti irrisolti. Alla ricerca di un equilibrio. Che, spesso, non si trova da soli.
Essere figlie, ed esserle a lungo, è un privilegio. Tuttavia, in certe condizioni, può trasformarsi in una prigione. Fisica ed emotiva. Capita soprattutto ad alcune donne, quando si ritrovano ad essere figlie di mamme anziane, che necessitano una dose crescente di energie, tempo e cura. Quest’esperienza, relativamente inedita e legata all’allungamento della vita, porta con sé non poche ambivalenze. Specie, ma non solo, quando le anziane madri sono malate.
Racconta Rosangela Percoco, 67enne, autrice di testi teatrali e di molti romanzi, tra cui A parte questo, tutto bene (Salani): «Ho una bambina di 87 anni. Le sue ossa sono fragili ma non si faranno forti; la sua pelle è sottile ma non si irrobustirà; il suo linguaggio è un’insalata di parole: un suo grazie suona come la lallazione di una neonata, solo che lei non imparerà a parlare. I suoi micromovimenti, tutti eseguiti nello spazio che va dalla testa ai piedi del letto, sono scomposti dal Parkinson. Una ventina di farmaci occupa la metà del tavolo in cucina: io, mio fratello e la badante ci limitiamo a cambiare forma a quella metropoli di scatolette. Le voglio bene. Di un bene che è cura, ricordi, tenerezza. Rabbia e impotenza.Spesso sono stanca, sempre sono confusa. Sono una scrittrice, immagino mondi. Ne sogno uno in cui, accanto alla medicina che allunga la vita, c’è una rete di relazioni e di sostegno che aiuta a vivere, non solo in quantità ma anche in qualità, questa nuova identità di genitori dei propri genitori».
Madri e figlie, condividere per non perdersi
Quanto pesi, questa cura degli anziani, dipende da molti elementi. Ma soprattutto, dalla rete su cui si può contare. Quando, quattro anni fa, la sua mamma manifestò i primi sintomi dell’Alzheimer, Monica Cirro (oggi 60enne) stava lavorando ad un progetto in Africa. «Fu istintivo tornare. Avvertivo un senso di responsabilità, riconoscenza e gratitudine nei confronti di quella donna di 79 anni che mi aveva donato la vita». Anche gli altri tre fratelli fecero quadrato intorno a lei. «Nessuno si sentì costretto. Fu proprio mia madre a sollecitarci, con l’esempio, a prenderci cura dell’altro fin dalla nostra infanzia. E quando cresci in questo humus, non puoi che perpetuare l’insegnamento». Certo non è stato semplice. «La condivisione dei compiti, e delle fatiche fisiche ed emotive, è stato l’elemento dirimente affinché noi continuassimo a pensare a lei come a qualcosa di prezioso, e mai come ad una carceriera».