Il finto smart working nelle zone rosse: tanto non è obbligatorio
Raccomandato dalla politica. Ignorato dalle (piccole) aziende private. E’ lo smart-working, uno di quegli strumenti che (in teoria) era stato individuato come fondamentale per affrontare l’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, ma che (in pratica) è stato parzialmente abbandonato.
Dimenticate per un momento le multinazionali o le aziende private di grandi dimensioni. Molte di queste, pensavano allo smart working da diversi anni e lo avevano messo in pista anche prima della pandemia, anche se con proporzioni minori. Le piccole medie società lo hanno sperimentato per la prima volta solo in questa emergenza e non tutte se ne sono innamorate. E infatti, a settembre, quando c’era l’illusione di essersi lasciati alle spalle il periodo peggiore dell’epidemia, molte di queste hanno cominciato a richiamare i propri dipendenti in ufficio (parzialmente o al 100%), derubricando lo smart- working a una misura emergenziale.
A settembre è rientrato il 30%
Secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano a settembre sono rientrati fisicamente in ufficio circa un milione e mezzo di dipendenti, sui sei milioni e mezzo che facevano lavoro agile nei picchi della pandemia. Il 30% circa. La maggior parte dei 5 milioni di smark worker ancora attivi lavorano nelle grandi imprese (33%, pari a 1,67 milioni), il 24% nella PA (1,18 milioni) e il 17% nelle PMI (890mila).
«Tutti presenti»
Non sono bastati gli evidenti risparmi economici, i benefici per l’ambiente e la salute a convincere alcuni manager a prolungare il lavoro agile. Quelli che insistono per avere tutto lo staff a portata di naso lo fanno in base a convincimenti personali, vecchi pregiudizi, luoghi comuni: «ti devo controllare, altrimenti tu mi freghi». Quelli che credono che a contare siano le ore trascorse alla propria scrivania, anziché la produttività.
Un vecchio modo di concepire il lavoro, suffragato o convalidato da recenti dichiarazioni di personaggi pubblici. Il primo tra questi è stato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, che a metà giugno ha detto «è il momento di tornare a lavorare, perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli». A cui ha fatto seguito, pochi giorni dopo, il giuslavorista Pietro Ichino https://it.businessinsider.com/smart-working-nella-pa-dopo-il-lockdown-31-dicembre/ secondo il quale lo smart working per i dipendenti pubblici è stato, «nella maggior parte dei casi, una lunga vacanza, retribuita al cento per cento». L’esperto si riferiva in particolare ad alcune figure: «Come facevano a “lavorare da remoto”, per esempio, i vigili urbani, i custodi dei musei, gli operatori ecologici, gli usceri?», aveva spiegato. «Se di sospensione dal lavoro si tratta, si pone il problema della disparità di trattamento fra pubblico e privato: perché nel privato i lavoratori sospesi si sono visti ridurre la retribuzione, nel settore pubblico no?». Ma sui social e sui media è rimbalzata solo l’idea che i dipendenti pubblici siano stati a casa, stipendiati. E questo messaggio deve aver fatto breccia sui manager già poco sedotti dello smart working.
Il finto smart working di Milano
In questi giorni, a Milano, zona rossa, rossissima, Luca è costretto ad andare in ufficio anche se lavora nel marketing di un’azienda di sanitari. Per arrivare in Piazza San Babila deve fare 14 fermate di metropolitana. Quando ha chiesto di lavorare da casa, il suo datore gli risposto: «la metropolitana non è un mezzo di trasporto rischioso: è stata ridotta la capienza. Niente scuse». Alessandra si occupa di contabilità e buste paghe. Per lei un rapido tragitto in macchina, e poi 11 fermate di tram, il 14. «E’ facoltà dell’azienda decidere di attivare lo smart working. Il Dpcm ci sollecita ma noi non ci obbliga», le hanno risposto dall’ufficio del personale. Idem per Lucia, che lavora in un’agenzia di comunicazione di piazza Cairoli. «Si va avanti come prima del Dpcm: una settimana da casa, una in presenza». In barba alle raccomandazioni e al fatto che nel frattempo la Lombardia sia entrata in zona rossa e le situazione sanitaria stia vorticosamente peggiorando.
Il Dpcm, infatti, raccomanda ma non obbliga
Il Dpcm del 3 novembre https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/11/04/20A06109/sg, che detta regole sullo smart working per le Pubbliche Amministrazioni (almeno al 50%), quando accenna negli articoli 1 e 5 alle aziende private e agli studi professionali si limita a «raccomandarlo», «qualora le attività possano essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza». Quindi i datori di Luca, Alessandra e Lucia sono nel giusto, dal punto di vista dell’applicazione della legge. Forse, però, mancano di buon senso, considerando l’epidemia.
E’ un diritto per i genitori? Sì, però…
Veniamo poi ad un’altra questione: sulla carta lo smart working sarebbe un diritto per molti genitori. Il Decreto Ristori, che introduce nuovi strumenti di flessibilità sulla conciliazione famiglia lavoro, riconosce anche il diritto allo smart working nel caso in cui i figli minori di 16 anni (e non più 14, come previsto in precedenza dall’articolo 90 del decreto Rilancio) siano messi in quarantena dal dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria locale. Però alcuni datori di lavoro non riconoscono questo diritto. «Non è siamo obbligati a concederlo», dicono.
Anche quando i figli sono in Dad
Lo stesso decreto prevede il diritto allo smart working anche per i genitori con i figli in didattica a distanza, nel caso in cui, cioè, sia stata disposta la sospensione dell’attività didattica in presenza. Anche in questo caso, il figlio convivente deve avere meno di 16 anni. Ma c’è chi nicchia.
«Non abbiamo evidenze di datori di lavoro che non concedano lo Smart Working. Non escludiamo che questo possa avvenire» commenta Alessandra Gangai, Ricercatrice Senior dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano https://www.osservatori.net/it/ricerche/osservatori-attivi/smart-working. «Dalle nostre ricerche emerge la grande progressiva apertura allo Smart Working di aziende che lo hanno sperimentato per la prima volta solo in questa emergenza». Ad ogni modo, aggiunge, « datori di lavoro dovrebbero tenere in considerazione le esigenze dei lavoratori e considerare le linee guida dettate dai decreti che vanno a favore di una maggiore conciliazione tra le esigenze delle persone, considerando la straordinarietà della situazione emergenziale, e la necessità di dare continuità alle attività organizzative». L’esperta conclude evidenziando che «quello che abbiamo sperimentato durante la prima fase dell’emergenza è una modalità di smart working molto particolare, con caratteristiche estreme ed “emergenziali”, ed è rischioso trattare il lavoro agile come un obbligo normativo o una misura temporanea».